Biblioteca Classense
via Baccarini, 3
Ravenna (RA)
Zecchini Giuliano
1919/ 2006
dipinto

tela/ pittura ad acrilico
cm. 117 (la) 78 (a)
sec. XX (1978 - 1978)
n. 132213
Giuliano Zecchini, nato a Ravenna nel 1919 e recentemente scomparso (2006) è presente in molte pubblicazioni e cataloghi d'arte. All'Accademia di Belle Arti di Ravenna ha goduto dell'insegnamento dei Proff. Enrico Piazza, Teodoro Orselli, Giovanni Naglia, Luigi Gallamini, Giovanni Minguzzi, Tuti, Pinzauti, Vittorio Guaccimanni ed altri.
Ha esposto un po' in tutt'Italia ed anche negli USA con numerosissimi e lusinghieri interventi critici.
Fra i tanti riportiamo di seguito alcuni brani, tratti da un piccolo catalogo dedicato all'artista ravennate (Giuliano Zecchini, Tipografia ArteStampa, Ravenna, 2002) che ci sembrano particolarmente emblematici riguardo alla definizione del suo stile:
"La tematica figurativa del pittore Zecchini è costituita in prevalenza da paesaggi e fiori.
Il dato naturale tuttavia non è mai imperioso o trascinante ma sempre allusivo: volendo dare una collocazione allo stile, viene alla mente l'espressionismo, ma un espressionismo pudico, controllato e sempre rigoroso.
La carica di soggettività con cui l'artista affronta il tema non viene deviata dagli scogli di reminiscenze culturali, per cui l'elaborazione definitiva non rompe definitivamente il rapporto con l'oggetto, ma lo ricerca con la libera fantasia di rapporti cromatici.
Il colore appunto ha lo scatto del temperamento entusiastico, la intensità e le intemperanze dell'abbandono alla fertile vena: inquietante e ricco di succhi e di tenere trasparenze, pacato nelle campiture di sostegno alla composizione, nervoso senza frenesia nel tocco insistito l'atteggiamento del pittore di fronte alla natura che potrebbe sembrare del "naif", ma il momento esecutivo, la realizzazione nella tonalità del rapporto di tono e di segno, le consonanze ardite e spesso arbitrarie fra luce e colore, testimoniano del vincolo non imitativo ma ricreante e rinfrescante che sempre lega il pittore Zecchini alla natura; una natura non goduta con occhio di spettatore ma tesaurizzata caparbiamente nella memoria: Le opere di Giulio Zecchini sono una franca testimonianza di sincere emozioni, sono opere di calda, di drammatica, di accorata intensità." (Renzo Bandoli, pp. 6-7).
"Nella pittura di Giuliano Zecchini invano si cercherebbe il sofisma intellettualistico, anche nel semplice rapporto tecnico del pennello con la tela. Il quadro, Zecchini, non lo costruisce come capita oggi spesso di osservare anche in tanti dipintori che si proclamano 'ingenui' e 'primitivi' ma lo crea, con atto di pura generosità che è amore e vuole contemplarsi nello specchio di un universo cromatico e formale, fiabesco, magico. Chiuso nel sortilegio di una atmosfera che cela dietro la fantasmagorica cortina dei colori, il mistero stesso della vita.
I fiori di Giuliano Zecchini sono quelli del giardino di Klingsor: ognuno di essi si avvivava di una cabala conchiusa e pure esteticamente perfetta. Incantati e incantatori. Osservate le sue rose, nella loro inquietante assorta intensità; i girasoli dalle lunghe ciglia spalancate su pupille d'oro dalla fissità astrale: vertigini di colori si assommano tutt'intorno a esprimere le meraviglie di una natura che in quei fiori si fa misteriosamente animistica.
Altrove, quasi un genio malizioso osserva con bonaria ironia da più terse evocazioni di conosciuti paesaggi, o un panteismo soddisfatto erompe in puro trionfale cromatismo.
Osservate certi suoi paesaggi. Repentine onde d'erba che scolorano e ricoloriscono sotto la sfera del vento, anfiteatri di verde muschioso, qua e là rotto dall'ocra dei soffioni, dal giallo del ranuncolo, dal fulvo striato della paparia frammista al geranio selvatico, irto di solitari fiori sanguigni o violetti. Giuliano Zecchini ha nella sua tavolozza colori che la flora della primavera gli invidia. E il brulichìo delle vite che si intrecciano e s'allacciano nelle centomila cavità del creato risale a fenomeno d'arte nella sintesi creativa del suo istinto di pittore panico." (Gabriele Bejor, pp. 8-9).