Museo Civico di Modena
Largo Porta S.Agostino, 337
Modena (MO)
Stringa Agostino
1641/ 1699
dipinto

tela/ pittura a olio
cm 142 (la) 86,5 (a)
sec. XVII (1690 - 1699)
n. 48
La grande natura morta dispone attorno a una scatola contenente della cioccolata (anzi, a quanto risulta dalla scritta, ‘chioccolata fina’) e contro un cielo rabbuiato melegrane, pannocchie, mele, pere, agli, cipolle, alcune bottiglie di vetro, un vassoio di frutta secca, una forma di pane e un grande vaso di ceramica decorata. Pervenne alla collezione Campori dalla raccolta Beccucci di Castelfranco con un’attribuzione tradizionale a Paolo Antonio Barbieri. In seguito ha rappresentato un caso particolarmente dibattuto dalla storiografia, impacciata nell’individuarne le coordinate cronologiche e geografiche. Rendendola nota, Arcangeli (1961) ne accettava infatti l’attribuzione al Barbieri, situandola per giunta nella sua fase giovanile in virtù del naturalismo e della spiccata indagine luminosa: caratteri, in ogni caso ben evidenti, che allo studioso richiamavano anche l’anonimo ‘Pittore di Rodolfo Lodi’, un altro grande campione della natura morta emiliana, la cui attività si situava per Arcangeli all’inizio del XVII secolo. Questo parere venne accolto da A. Ghidiglia Quintavalle (1964), ma uno spunto fornito da R. Longhi (1950, p. 39) e ripreso da R. Roli (1964) portava a rivedere l’intero quadrante cronologico entro cui si sviluppa la natura morta emiliana, tanto che C. Volpe (1979 e 1980) giungeva a proporre, sia per il ‘Pittore di Rodolfo Lodi’ sia per l’autore di questa affascinante tela, una datazione ben dentro il XVII secolo. Ciò comportava da un lato la rinuncia ad attribuire al dipinto una paternità storicamente definita (di qui l’appellativo convenzionale di ‘Maestro della chioccolata fina’ con cui il suo autore è noto fin dal tempo della grande mostra del Settecento emiliano) e dall’altro l’individuazione di un aspetto della cultura settecentesca che coltiva ideali di spiccato realismo, in opposizione al classicismo imperante nella pittura di carattere ‘alto’. L’opinione di Volpe è stata in seguito vivacemente contestata da Rosei (1982) che, seguito da Grimm (1995), ha riproposto la tradizionale attribuzione a Paolo Antonio Barbieri; ma è stata anche significativamente forzata da Salerno (1984), che ha ascritto il dipinto in questione al Todeschini, sulla base del confronto, del tutto generico, con una Natura morta da questi firmata e datata 1700 (Como, coli, privata). In favore di una datazione intermedia, sul finire del XVII secolo, si è invece espressa Anna Colombi Ferretti (1989). Il reperimento da parte di chi scrive di due nature morte in collezione privata a Rimini e poi di un’altra, qualitativamente superiore, con frutta, fiori selvaggina e un bambino in collezione privata a Modena, ha in effetti confortato quest’ultima posizione, giacché tanto nelle prime quanto nella seconda compaiono inserti figurali in cui è facile riconoscere la mano di Francesco Stringa, protagonista della pittura estense tra Seicento e Settecento: lo stesso tipo di collaborazione si ravvisa poi nella superba Vanitas coi busto di Francesco I conservata nell’Art Institute di Minneapolis e in un altro dipinto con un Bambino appoggiato a un cassone tra selvaggina e ceste colme di frutta nel Museo del Castello Sforzesco di Milano, ricondotto allo stesso nodo critico da Giorgia Mancini (per l’illustrazione di tutti i dipinti citati si veda ora La natura morta... 2000, figg. 216- 220). Già su questa base era possibile identificare questo specialista con il fratello di Francesco Stringa, Agostino, del quale è documentata un’attività proprio nel campo della natura morta: un’ipotesi che è poi divenuta certezza grazie alla straordinaria Natura morta con vaso e aquila della Galleria Estense di Modena, che presenta analogie evidenti con tutti i dipinti sopra citati ed è da identificare in un quadro di questo soggetto che viene citato come opera “del Stringhi” in un inventano estense del 1699 (BENATI 2000b, p. 56, fig. 6; MANCINI 2000, p. 213, fig. 212). L’identificazione proposta ha reso ragione del corposo naturalismo e del turgore formale con cui sono individuati gli oggetti nelle opere del gruppo, che, per l’avvolgente gioco della luce e dell’ombra, trova un preciso punto di riferimento nella pittura, di segno già neo-carraccesco e dunque per certi versi pre-crespiana, dello stesso Francesco Stringa. Nato nel 1641, come si desume dall’atto di battesimo reperito da Marco Dugoni, Agostino risulta autore di “quattro ovatini piccoli con fiori” che nel 1686 erano nella villa delle Pentetorri (VENTURI 1883, p. 281), da giudicare al momento dispersi (non risulta infatti praticabile l’ipotesi di identificarli con quattro dipinti rettangolari con ghirlande contenenti immagini sacre, inseriti in questa problematica da BIAGI MAINO 1989, i, p. 422, figg. 507- 510). Da un altro documento, segnalato ancora da Dugoni, si apprende invece che egli morì nel 1699. Come già notato (BENATI, in La natura morta ... 2000, p. 224), “resta aperto il problema di un’eventuale collaborazione di Francesco Stringa anche per dipinti che, come la Vanitas di Minneapolis o la tela dell’Estense, non presentano veri e propri inserti di figura ma denunciano un livello esecutivo, oltre che di ideazione, assolutamente sorprendente”. Pur lasciando dunque aperti questi casi, si può invece ritenere che per altre tele, come quella qui considerata, la logica operativa che presiede all’organizzazione delle botteghe secentesche, e in particolare a quelle a conduzione famigliare, determinasse una divisione dei compiti in base alla specializzazione dei singoli componenti: nonostante le contestazioni di recente espresse, per vero in modo assai confuso (NEGRO, in L’anima...2001, p. 113), il nome di Agostino resta dunque accreditato per i dipinti di natura morta propriamente intesa.