Biblioteca Classense
via Baccarini, 3
Ravenna (RA)
Barbiani Giovanni Battista
1593/ 1656-58 post
dipinto murale

muro/ pittura a olio
cm. 215 (la) 330 (a)
sec. XVII (1632 - 1632)
Il dipinto raffigura in alto il Padre Eterno su nubi, in veste verde e manto rosso svolazzante, che regge il globo e benedice. Sotto la Divina Figura, alcuni cherubini occhieggiano fra le nubi, e più sotto ancora due angeli, in volo entro un chiarore giallastro, reggono una corona e una mitria bianca, ornata di ricami e fregi dorati, sul capo di San Benedetto, che vediamo frontalmente, seduto, vestito di una cocolla bianca e con un pastorale, mentre esibisce il libro della Regola aperto sulla prima pagina del quarantaduesimo capitolo, e con una pagina ripiegata in modo tale da consentire la parziale visione della prima pagina del sesto capitolo. Ai lati di San Benedetto, che ha intorno al capo un'aureola con fosforescenza a disco di luce giallastra, sono inginocchiati due giovani monaci benedettini, pur essi aureolati con un sottile cerchietto luminoso, visti di profilo e reggenti i rispettivi pastorali. Alle loro spalle, ai lati, sono altri due monaci, uno per parte, questi ultimi privi di aureola. Due angioletti sono librati in volo sopra le teste della coppia di giovani santi monaci: entrambi porgono una corona di fiori; inoltre, quello di sinistra reca una palma e l'altro un giglio. Nella cimasa che sovrasta il dipinto, una tabella porta un'iscrizione.

L'opera in esame spetta, insieme all'altra dipinta sulla stessa parete del corridoio (cfr. nctn 00000172), per analogia stilistica, alla mano del pittore ravennate Giovanni Battista Barbiani. Il raffronto con gli affreschi della cupola di San Romualdo (cfr. nctn 00000171), eseguiti da questo pittore nel 1632, un anno prima della data di consacrazione della chiesa ("Alli 7 febbraro del 1633 vi fu cantata la prima messa" riferisce A. Tarlazzi, p. 392), induce a suggerire anche per quest'opera una datazione nei primi due anni del quarto decennio. Quest'ultima precisazione può essere suggerita dal fatto che un documento conservato nell'Archivio di Stato di Ravenna (Congregazioni Religiose Soppresse, vol. 244 Classe, contenente inventari, fascicolo datato in apertura 1633) alla carta 14r reca la seguente indicazione: "Nel dormitorio grande. Nella p.a (prima) camera a man destra cominciando dall'imagine di S. Benedetto". In considerazione di tale scritta, riferentesi certamente al dipinto in esame, la data 1633 può essere intesa come un ante quem per la sua esecuzione.
L'opera è stata realizzata su una parete del corridoio centrale, al primo piano, di passaggio obbligatorio per andare alla sala di lettura e agli uffici, che più degli altri ha solennità e austerità claustrale.
Il dipinto propone, quindi, la raffigurazione classica di San Benedetto legislatore, in trono, in abito camaldolese per conformità alla celebrazione dell'Ordine di Classe, in atto di presentare la Regola ai discepoli. Come si è detto, la Regola è aperta sul capitolo VI De Taciturnitate e sul capitolo XLII Ut post completorium nemo loquatur (cfr. Regola ed. 1572, pp. 58 e 184). I due giovani santi inginocchiati in primo piano sono: quello a destra Mauro, l'altro Placido. Furono entrambi discepoli di San Benedetto. Figlio di un nobile romano, Mauro, ancora giovinetto, fu offerto dal padre a San Benedetto, quando questi a Subiaco aveva iniziato la sua organizzazione della vita monastica e la costruzione di piccoli cenobi. Anche il patrizio Tertullo offrì allora al santo il figliolino Placido, ed ambedue gli oblati furono, fin dal principio, carissimi al patriarca per la loro bontà e per le felici speranze che facevano concepire. Mauro, anzi, maggiore di età e più maturo nella virtù, divenne presto il suo fidato collaboratore. L'episodio che lo rese celebre nella storia dell'ascetica cristiana e religiosa è quello della sua miracolosa obbedienza. San Benedetto vide un giorno che il fanciullo Placido, uscito ad attingere acqua nel lago, sporgendosi incautamente troppo, era stato travolto dalle onde e correva gran pericolo di annegare. L'abate allora chiamò urgentemente Mauro e gl'ingiunse di correre ad aiutare il fratellino: Mauro va all'istante e, preso soltanto dalla preoccupazione di obbedire, procede oltre la riva, prende Placido per i capelli e lo riconduce a terra, accorgendosi soltanto allora di avere camminato sulle acque. Probabilmente è ancora Mauro quel monaco omonimo che, alla partenza di San Benedetto da Subiaco per Montecassino, lo rincorse per annunziargli, con compiacenza, che il prete Fiorenzo, avversario dell'abate, punito evidentemente da Dio, proprio allora era morto per l'improvviso crollo di un solaio, e che ricevette dal santo una forte riprensione, per aver goduto della morte di quell'infelice. Tutto ciò sappiamo con certezza dai Dialogi di San Gregorio Magno. Quanto di Mauro si è narrato in seguito, fino ai tempi nostri, deriva da una biografia apocrifa, scritta dall'abate Odone di Glanfeuil (nell'863), ma presentata come ammodernamento dell'opera di un Fausto, discepolo anche lui di San Benedetto a Montecassino e compagno di Mauro nel viaggio e nella permanenza in Francia (cfr. Lentini 1967, coli. 210-219). La presenza di Mauro in Gallia ha rilievo nell'iconografia, tanto è vero che talvolta il santo viene rappresentato con uno stemma in cui figurano i gigli di Francia, dove avrebbe introdotto l'Ordine Benedettino. Nel dipinto in esame egli è riconoscibile rispetto all'altro santo che lo fronteggia, proprio perché l'angelo in volo gli porge uno stelo di gigli fioriti. Nell'iconografia, vediamo Mauro generalmente raffigurato con Placido e con San Benedetto (cfr. Liverani 1967, coli. 219-223). Tuttavia a Ravenna, nella chiesa di Santa Maria Maggiore, si conserva un dipinto, probabilmente copia settecentesca da una tela dei fratelli Felice Andrea e Francesco Antonio Bondi pittori di Forlì dei secoli XVII-XVIII, raffigurante San Mauro che guarisce un infermo (cfr. Viroli 1991a, pp. 270-271), dove gli altri due santi non sono presenti. Nel dipinto di Santa Maria Maggiore San Mauro indossa il nero saio benedettino, mentre nell'opera in esame i vari personaggi vestono di lana bianca, del colore cioè adottato dai monaci della riforma camaldolese. Ciò non deve stupire, essendo abbastanza comune che gli artisti, incaricati dall'uno o dall'altro convento di ritrarre San Benedetto e i suoi discepoli, adottassero spesso il colore delle vesti proprio ai monaci committenti (cfr. Celletti 1962, coll.1172-1176). Il santo a sinistra, al quale l'angelo in volo porge la palma del martirio, è il già ricordato Placido. Per conoscere la vita di questo santo, la fonte è ancora rappresentata dai Dialogi di San Gregorio Magno. Nel dipinto che qui si presenta il giovane santo è onorato, come si è detto, con il titolo di martire (l'angelo, infatti, gli porge la palma). In realtà, la leggenda che vorrebbe Placido fra i martiri è destituita di fondamento essendo un'invenzione di Pietro Diacono (morto nel 1159) bibliotecario e archivista di Montecassino, il quale intervenne, con una disinvoltura sorprendente, nel decidere le varie tradizioni in favore del suo monastero, mediante la redazione di falsi (ma sulle vicende relative al culto di San Placido si rimanda a: Picasso 1968, coll. 942-952 e Colafranceschi 1968, coll. 952-954).
Anche il distico di quest'opera, come quello che sovrasta l'altro dipinto del corridoio della Classense, risale all'epoca di realizzazione del dipinto e allude al silenzio (non tanto, o non solo, perché è una delle tante indicazioni della Regola benedettina, quanto perché il silenzio è la virtù romualdina per eccellenza, che rientra perfettamente nell'Ordine benedettino. Si pensi ai sette anni di silenzio di cui tratta il capitolo LII della Vita di San Romualdo scritta da San Pier Damiani).