Camera di Commercio
viale Farini 14
Ravenna (RA)
Manzone Antonino progetto
1924/ 1996



Notizie storiche: progetto e costruzione
Antonino Manzone nasce a Roma nel 1924 e vi muore nel 1996. Dal 1941 al 1947 frequenta la Facoltà di Ingegneria dell'Università di Roma "La Sapienza" per poi proseguire gli studi presso la Facoltà di Architettura della stessa Università e conseguire la Laurea nel 1951. Subito dopo per due anni va in Svezia dove lavora con l'architetto William Olsson. Tornato in Italia apre lo studio professionale a Roma, vince il concorso per la Camera di Commercio di Ravenna ed esercita attività didattica presso la Facoltà di Architettura come assistente della cattedra di Elementi di Architettura e Restauro dei Monumenti (1953-1961). Nel 1962 interrompe l'insegnamento e si trasferisce a Ravenna.,
nel 1957, veniva inaugurato quell'edificio ‘rivoluzionario' sul viale Farini. Era l'atto finale di una breve vicenda iniziata col bando di concorso del 1953, proseguita coi lavori della giuria di primo e secondo grado, quindi con l'appalto ed il cantiere.
In giuria, il Presidente della Camera di Commercio di allora, il Presidente per eccellenza, Luciano Cavalcoli, aveva chiamato due architetti e professori universitari di fama internazionale: Giuseppe Vaccaro e Giovanni Michelucci (oltre al Soprintendente ai Monumenti Giovanni Bonomo). Vinse uno sconosciuto giovane architetto romano alla sua prima vera prova importante: Nino (Antonino) Manzone che nel 1953 aveva soli 29 anni.
Con la Camera di Commercio la città acquista la nota della modernità e come spesso avviene, soprattutto in ambienti rimasti chiusi alle innovazioni per storia secolare, come Ravenna, quell'edificio è, da parte di molti, considerato estraneo alla tradizione, all'edilizia, all'ambiente cittadino. Tuttavia, insieme al suo autore, a poco a poco vince le resistenze ed entrambi affermano la loro autorità culturale.
Manzone si trasferì a Ravenna, dove aprì lo studio professionale, il primo vero studio di architettura della città. Nei vent'anni che seguirono vi realizzò opere importanti e sempre di valore, tra cui: l'Hotel Bisanzio in via Salara, la casa Roncuzzi sul viale dei Giardini pubblici, la sede dell'ITI, l'Istituto Tecnico Industriale (quest'ultimo insieme a due ancor più giovani architetti ravennati: Gino Gamberini e Danilo Naglia), oltre a vari interventi di edilizia popolare, all'edificio di via Diaz angolo via di Roma, alla nuova sede dell'Archivio di Stato, al quartiere Vallona.,
Il progetto della camera di commercio di Ravenna rappresenta uno dei passaggi fondamentali degli esordi professionali di Antonino Manzone. Nel 1953, appena ventinovenne, è giudicato vincitore del concorso da una giuria composta tra gli altri da Giuseppe Vaccaro e Giovanni Michelucci.
La localizzazione dell’intervento impone un confronto con la realtà ravennate, definita da Ludovico Quaroni, che porta a termine più di un decennio dopo nella stessa città la sede dell’Esattoria comunale, «...un ambiente assonnato di grosso borgo cittadino» (L. Quaroni, 1959, cit.) nel quale le più “moderne” opere effettivamente realizzate risalgono al periodo fascista appena trascorso, la presenza delle quali è significativamente presente non distante dal sito, nella piazza allora intitolata ai Martiri della Libertà nella quale sfocia via Farini.
Il progetto viene sviluppato a seguito del ritorno di Manzone dall'esperienza svedese che lo vede coinvolto dal 1951 al 1953 e risente fortemente delle influenze nordiche di quella corrente razionale-organica scandinava, legata ad Aalto e Asplund, largamente seguita in Italia in questo periodo. Nonostante le polemiche locali, l'edificio è accolto positivamente dalla critica dell'epoca, che lo indica come un esempio di utilizzo di un linguaggio moderno: visibile nella sobrietà delle linee, negli spazi interni riferibili ad un modello di funzionalità e nall’espressività della copertura.
La volumetria del fabbricato risponde all'esigenza di ricomporre la forma urbana della prima parte di viale Farini, risolta attraverso il mantenimento del filo stradale e il rispetto dell'altezza della linea di gronda degli edifici circostanti, interpretando le istanze dei temi rogersiani dell’inserimento ambientale allora al centro del dibattito.
L’edificio trova nell’affaccio sul viale e nel suo isolamento rispetto ai volumi contigui, alcuni dei principali fattori che ne influenzano le scelte formali.
L'intera costruzione è articolata su quattro livelli con un piano attico, conservando una classica suddivisione del blocco edilizio in basamento, piani tipo, coronamento. Quest’ultimo è chiaramente caratterizzato dalla forma a barca rovesciata della copertura rivestita in rame, forma ricorrente nelle architetture del periodo, che si ritrova in altre celebri realizzazioni come le case INA che Mario Ridolfi realizza a Roma in via Etiopia.
La suddivisione del volume corrisponde, poi, alla ripartizione funzionale dei vari livelli. Al piano terra si trovano gli uffici con accesso pubblico (anagrafe, ufficio viaggi, sale per esposizioni convertibili per conferenze e riunioni); il primo piano comprende i reparti dirigenziali con alcuni accessi indipendenti e il corpo della sala riunioni da centocinquanta posti. Al secondo piano sono situati tutti gli uffici accessori alla camera di commercio, ed un’altra sala riunioni in asse con quella del primo piano. Al piano attico, infine, è situato l'archivio, al quale si accede mediante una piccola scala e l'appartamento del Segretario Generale.
La facciata principale, mostrando il principio strutturale appartenente all’l'intero edificio, è scandita da un telaio finito in cemento martellinato, caratterizzato dall’angolo a quarantacinque gradi in corrispondenza del raccordo pilastro-trave.
Ciò impone un rigoroso ritmo alla composizione degli alzati e reitera l’immagine di una griglia strutturale ad incorniciare i tamponamenti in mattoni. In corrispondenza del piano terreno e della sommità, questa è regolata da sottomodulazioni alla geometria quadrata che regola invece il primo e secondo piano. Come nel già citato edificio di Ridolfi a Roma, anche qui Manzone apporta alcune variazioni alle sezioni delle strutture in chiave espressiva, visibili nel rigonfiamento dei pilastri in corrispondenza dell’attacco a terra.
L’immagine generale è quella di una solidità costruttiva conferita dalle dimensioni e dall’isolamento del volume, aperto sulla strada, e dalle soluzioni tecnologiche utilizzate in chiave linguistica.
Particolare cura è poi affidata alla messa in opera delle finiture, tanto esternamente quanto internamente. La zoccolatura esterna dell'edificio è in granito rosso di Solberg; le finestrature e le vetrine sono in Sculptonia, mentre i parapetti dei balconi e le ringhiere delle scale, in ferro. All'interno le pareti dell'atrio principali sono rivestite in legno (citazioni di quelle architetture scandinave certamente considerate da Manzone), le superfici dei vani scala sono trattate in intonaco verniciato, mentre gli uffici in intonaco a mezzo stucco. Nelle zone di distribuzione prevale il lineoleum, che compare anche nei rivestimenti delle porte, mentre le sale d'attesa sono in rovere lucidato. Nelle pavimentazioni prevale la gomma di tipo industriale variamente trattata.


fonte: Architetture del secondo Novecento - Mibact - Matteo Sintini, Elia Serafini

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